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La novità del totalitarismo, che secondo la Arendt «non ha precedenti», rimanda in prima istanza alla novità della crisi di senso diffusa nella società di massa del Novecento; è una novità, che pretende di essere un convincente superamento di quella crisi di senso, restituendo alla politica il compito elevato di risolvere i problemi dell’esistenza umana, in precedenza affidati alla pratica religiosa.
All’ipotesi sulla difficoltà dell’uomo di esperire il mondo senza una causa e un progetto definiti, e dunque di rispondere alla domanda fatidica sui motivi del vivere, il totalitarismo risponde trasformando la politica in religione – e dunque declinando la militanza politica in pratica dai contorni religiosi –, e conferendo agli individui, organizzati in masse, il compito di realizzarne gli ideali supremi (la Nazione, la Razza, la Classe). La religione diviene in questo modo un affare mondano che ha registrato la precedente espulsione di Dio dal mondo. Inoltre, la politica fattasi religione incarica l’uomo di realizzarsi nel mondo, salvaguardando la vettorialità della Storia tipica del monoteismo giudaico-cristiano; e, anzi, radicalizzando questa vettorialità e contrapponendo decisamente il presente della Sofferenza al Futuro in cui finalmente l’umanità sarà in pace con se stessa. In questo senso, l’individuo consegue nuovamente un orizzonte del senso di vita nel mondo: sa che vive per negare questo mondo, per realizzarne un altro del tutto differente, nonché per trasformare definitivamente se stesso.
Il carattere religioso che assume la politica in ambiente totalitario non consiste solo nella realizzazione dei riti politici di massa, nella celebrazione della figura del leader carismatico ecc. Questi sono solo gli aspetti esteriori e più evidenti – indubbiamente utili per rafforzare il consenso ideologico e politico tra le masse –, cui corrisponde un motivo più profondo e probabilmente più determinante.